domenica 21 gennaio 2024

Lavanderia

Scopa!
- Questa si chiama 'fortuna del principiante' bello mio...
- Intanto sto vincendo io, disse spostandosi il ciuffo nero dagli occhi.
Il vecchio abbozzò un sorriso forzato. La bocca si inarcava a fatica, era come se il suo viso a contatto con l'aria si fosse solidificato fino a mantenere un'espressione sempre uguale. Adesso però, forse per il calore che avvertiva in quella sala, aveva preso a sciogliersi, era più modellabile.
- 11 a 6, ho vinto!
Non erano i panni che giravano, non era nemmeno il rimbombare dei motori delle lavatrici e delle asciugatrici. Non era quel roteare che gli confondeva i pensieri. Era stata l'attesa che aveva preceduto l'arrivo di Giorgio, un bambino calabrese di circa 8 anni con un mazzo di carte in mano e il padre al seguito. In quel tempo lungo di attesa Antonio aveva visto tutto, sua moglie che indossava il vestito di pizzo nero con lo scollo a V, sentito suo padre che lo picchiava per aver usato il banco di scuola come slittino, la maestra Licata gli occhi sgranati di rimprovero, i suoi collant color carne e gli occhiali dalla montatura metallica. Aveva visto suo figlio appena nato e il fasciatoio con la nuvoletta che pendeva dal soffitto sul suo volto sereno. Aveva visto il gres grigio della camera da letto e la galleria Umberto I illuminata a festa, il negozio di saponi e quello dei legumi. Aveva visto le trasferte in Olanda e in Francia, il giorno della sua promozione, i suoi dipendenti inchinarsi ai suoi successi, la sua carriera 'illuminata' e le famiglie che aveva tenuto in vita nonostante la crisi. Infine, aveva visto se stesso, solo e senza una casa, dentro una lavanderia  con le luci al neon e un calore che svanisce quando qualcuno apre la porta.
Mentre pensava sentiva le lacrime, le sentiva sguazzariare dentro, ondeggiare alla ricerca di uno sfogo, le sentiva scontrarsi contro un viso marmoreo che non aveva più fori.
Da quando Laura non era più in casa la sua vita aveva fatto marcia indietro. Suo figlio aveva vinto. Non aveva tempo di occuparsi di loro, diceva. Si era sostituito alla legge, alla famiglia, alla vita di coppia. 
'Tu non mandi tua mamma in ospizio!'
'E perché? Ormai non siete in grado di gestirvi. Tu non sai fare niente e la mamma è andata fuori di testa'
 Antonio quel figlio l'aveva desiderato eppure adesso lo odiava. E non poteva parlare, né contraddire i suoi ragionamenti perché aveva un unico modo di esprimersi, quello della rabbia e della violenza.

'Vuoi la rivincita'?
Antonio riemerse dall'apnea e guardò Giorgio. Aveva la faccia paffuta e un'espressione buona. 
'Si è fatto tardi e i vestiti sono pronti da un pezzo'
'Sì ma non vorresti vincere?'
Antonio guardò il padre di Giorgio e vide che sorrideva. Anche il suo sorriso si sciolse e la sua bocca disegnò spigoli più armoniosi.
-I bambini vogliono vincere, mi disse. Anche i grandi dovrebbero voler vincere un po' di più in effetti.
Antonio rimase in silenzio mentre l'odore di bucato si mischiava alla puzza di scarpe vecchie, le centrifughe giravano e il sapone formava grappoli di bolle che non scoppiavano mai. Vincere... Chissà cosa poteva voler dire per un bambino, pensò. Nella sua vita quelle che aveva reputato le più grandi vittorie si erano poi rivelate le più grandi sconfitte. 
Si tolse la giacca, la poggiò sulla sedia e fece  a Giorgio cenno di dare le carte.

Forse hai ragione, voglio la rivincita.



mercoledì 3 gennaio 2024

Sala d'attesa

Il muro è bianco, come a marcare l’assenza di qualsiasi cosa. Solo punte di stucco che nascondono vecchi quadri o poster.
Il sole spento fa scintillare questo bianco e ne accentua la presenza. La luce della stanza rimarca la pazienza che ci metto a star qui, seduta immobile privata dai sogni della vita vera.
Nella mia sala d’aspetto non ho scelto io di entrare, eppure ci sono finita dentro insieme a queste ombre che non respirano quasi, chiuse in un silenzio di abitudine. Su questi muri anonimi posso proiettare qualsiasi cosa.
Nessuno mi accompagna, sento solo te che ti muovi dentro la mia pancia, facendomi il solletico. Non sopporti che io stia ferma e io non sopporto che tu stia fermo. Ti vedo già a schizzare acqua di mare sui bagnanti asciutti, ti vedo mentre te ne vai in giro con il tuo ciuffo spavaldo in cerca di vita. Io ti vedo fuori da qui, fuori da questo silenzio, ti vedo piangere, arrabbiarti, prendere decisioni impulsive, girare il mondo in cerca di un posto tuo. Io ti voglio, ti chiamo, ti sento. Ti vedo tutte le notti che mi soffi nel grembo e mi spieghi che sarai dispettoso e gioioso, che sarai la versione migliore di te.

Ti copro con le mani, ti abbraccio e sento un brivido nel ventre che mi fa sorridere. Una donna sulla trentina entra nella sala, nessun tratto distintivo, piatta come il bianco dei muri, capelli colorati di un marrone sbiadito e gambe magrissime per il peso che trascina. Io la fisso mentre sfila e lei distoglie subito lo sguardo. Un'altra ombra che non saluta nemmeno, non un'espressione né un accenno di umanità, solo una pancia tonda e gonfia che la precede. Il rumore dei tacchi sul pavimento mi fa pensare che in verità suo figlio stia bussando, stia picchiando sulla pancia per fuggire. La donna si siede e prende in mano il cellulare, usando un'indifferenza innaturale. Indossa degli stivaletti scamosciati marroni e un vestito elegante bianco con strass sul colletto, è giovane inutilmente perché è pallida e inespressiva come queste mura che ho davanti. Il pavimento è di mattoni lisci vellutati, sfibrati dal tempo. Prima qui c'era vita, c'erano cose semplici che restavano nella memoria, forse delle feste, dei valzer, delle gare contro il tempo, forse c'era una luce migliore, c'erano sogni in queste fughe sfocate, c'erano persone, c'era vita. Adesso cosa aspettiamo in questa sala?
Vieni qui bambino farfalla, bambino leggero, limpido, libero. Ti copro io da questo bianco abbagliante, da questo mondo insolito fatto di formalità e convenevoli. Tu non ti prendi sul serio, non tentenni perché sai cosa vuoi. Perditi se vuoi, qui dentro ci siamo finiti ma stiamo solo aspettando. Una volta fuori sarai libero di perderti e andare ovunque tu voglia, dove ti sentirai te stesso e potrai sentirti libero, non sentirti in colpa perché devi per forza essere. Potrai godere delle meraviglie del mondo, dei luoghi incantanti e delle persone che splendono di amore, potrai nutrirti di te stesso e degli altri nel modo più sincero che puoi.
La dottoressa viene fuori insieme alla 'famiglia ombra' che si trascina sul pavimento lasciando i segni di scarpe liquefatte, tutte uguali, vicine nella forma e nel peso.

Ti guardo e ti dico 'finalmente'.

Adesso ci siamo noi, regaliamoci questa ecografia. Voglio vederti, sì, voglio vederti.
"Dottoressa, adesso tocca a noi. Siamo pronti!"




venerdì 20 ottobre 2023

Zio Carmelo

 Soprattutto la voce mi rimbomba nella testa, con la sgraziata raucedine di chi ha fumato stecche intere di sigarette per una vita. La voce che esplode in un boato di ospitalità e affetto non appena mi vede. 

"Beella, Lauretta, come stiamo? Ti ho pensato! Vieni che ti faccio vedere una cosa speciale..." 

Era questa la sua accoglienza, tutte le volte. Quando tornavo al Bosco era lui che dovevo incontrare, lui e Donna Rosa. E non so come si fa a spiegare il Bosco se non ci si è mai stati. 

Il Bosco è zio Carmelo, con i suoi esperimenti culinari e la leggerezza della vita da 'comune', il suo orologio con il pallone dei Mondiali del '92, i suoi occhi piccoli e brillanti, attenti a tutto e senza giudizio, una marea di piante coltivate in un pezzo scosceso di terreno acquistato quando dalla Svizzera si trasferì in Italia, trasformato in un luogo incantato pieno di fiori, biblioteche, un teatro, una cantina, altalene, laghetti e tre casette per le sue tre figlie. Carmelo non mi è bastato mai, è per questo che voglio ricordarlo, per non perdere nemmeno un pezzo della magia che mi ha regalato. 

Oltre alle meravigliose giornate dedicate alla Pasquetta, mi sono trovata al Bosco in estati torride piene di lucciole e arte, quando camminavo in strade buie con i mie amici di una vita con la faccia ricoperta di macchie di tempere, senza trucco né maschere, solo avvolta dalla poesia delle parole, della pittura, della musica, della natura. 

Ho mangiato il risotto alla borragine e quello alla provola di zio Carmelo e la pasta fagioli e cozze di Donna Rosa. Ci aveva insegnato a vedercela da soli per lo più, era amorevole e ospitale ma anche fintamente burbero e spesso avvertiva il bisogno dei suoi spazi di libertà. Diceva sempre che il Bosco era un luogo da coltivare e noi di casa Mazzola dovevamo fare di tutto per non farlo morire. "Il Bosco va coltivato", ci diceva...

Carmelo è vita, è un sogno che si realizza il mattino dopo con la costruzione di un teatro a cielo aperto che Casa Mazzola ha contribuito a progettare e ultimare, è un mondo di sapere, di cultura in tutti i campi, è una sfida uno contro tutti a Trivial, è una grappa fatta in casa, un vino bianco e un vino rosso di guarnaccia, è una cornice di edera e un melone bianco dolcissimo, è una brocca di acqua riempita da una sorgente, un cesto di vimini pieno di pomodorini e verdure, è la spesa ragionata tutte le mattine dopo un'attenta conversazione con Rosa sul menu del giorno, è una canottiera azzurra, un paio di gambe bianche magre, "Il nome della rosa" di Umberto Eco, la persona che mi ha dato i consigli giusti quando volevo cambiare facoltà ed ero demotivata. 

Zio Carmelo è arte, è il ragazzo della via Gluck, è Bosc
h, 'Cent'anni di solitudine', un cruciverba sempre pieno, un paio di occhiali demodé e un'intelligenza ammaliante.

Zio Carmelo era per me perseveranza. Faceva la vita dell'eremita ma era la persona più incisiva che conoscessi. Ha creato un mondo perfetto dal nulla e gli ha regalato un'aura poetica, quasi divina, sgombra di pregiudizi. Non invecchierà mai, non morirà mai. 

Zio Carmelo mi ha insegnato a pesare tutto, a dare valore alle cose importanti, come mia madre, come mio padre. 

Zio Carmelo è un pezzo della mia famiglia che se ne va perché si è stancato di un modo in declino. 

Ci trattava come figli quel genio visionario, non era una persona qualunque, immaginava il suo mondo ideale e lo realizzava poco dopo. Sdrammatizzava sempre, era rude a volte ma aveva un cuore enorme. 

Io ho avuto Carmelo, l'ho amato e lo ricorderò per sempre.


Rino Gaetano - Ma il cielo è sempre più blu (Official Video) - YouTube







venerdì 28 luglio 2023

Repressione Piemonte

Siamo nel Canavese, in un pezzo di terra usato come dormitorio e dove la gente non si è mai svegliata. Dietro di noi un uomo in camicia stropicciata, sui 50 anni, capelli lunghi brizzolati con una forte cadenza calabrese si intromette nella conversazione mentre beve la sua quinta birra da 66 cl. In realtà dice di non essere sicuro che sia la quinta perché beve per dimenticare e non se lo ricorda. Ha detto che proprio per questo motivo paga sempre in anticipo. Lo vedo triste, mentre si affanna a chiamare tutta la sua rubrica per sapere se qualcuno vuol fargli compagnia al bar. Un suo amico gli dice di sì e io mi sento sollevata per lui. Ci racconta che aveva un’amica russa e che quando lui si è permesso di parlare male di Putin lei si è arrabbiata e gli ha risposto male, irritata per il suo commento politico assolutamente fuori luogo.

Il bar è a Cuorgnè, un posto che solo a nominarlo ti fa riflettere su quanto sia confinata l’esistenza di chi ci abita. I tavoli e le sedie sono di un colore sgargiante come a ricordare che tutto è reale, come ad affermare la propria esistenza, creare un piccolo rifugio magico gestito da alcolizzati non per scelta e gente che lavora ad ore, in cui gravitano bambini dell’asilo da una parte, paracadutisti e gente senza nome dall’altra, quasi tutti in silenzio fino a quando qualcuno, un po’ più temerario degli altri, non dà il ‘la’.

Questo posto mi piace perché ha voglia di esplodere. Si percepisce per la cura del prato con i giochi per bambini, per la voglia di comunicare che diventa impertinenza se assecondata, per l’audace posizione a metà tra le montagne e la strada, per il servizio cordiale ma informale.

Giorgio, il proprietario, non ha mai mostrato gli occhi. Sono coperti da occhiali da sole a specchio mentre parla senza sosta come se non avesse davanti due persone ma due mummie che possono solo guardare e non interagire. In un delicato equilibrio tra educazione e tatto, cerco di interromperlo con qualche domanda tanto per ricordare che sta parlando con due esseri umani. Giorgio per sopravvivere ha girato l’Europa, ha fatto il cameriere, gestito bar ed è stato insieme a donne bellissime. Giorgio ha bisogno di raccontarci tutto. Ha bisogno di parlare e non di ascoltare, confinato in un pezzo di terra in discesa frequentato troppo raramente da persone che accendono una conversazione. Giorgio è permaloso, ci racconta che le spese sono raddoppiate e che gestire un locale è diventato difficile. Il clienti, anche quelli più assidui, sono polemici per i prezzi che ritengono troppo alti per e gli mandano messaggi di sfiducia, come ad addebitare la colpa a lui che non c’entra nulla.

Il cielo è illuminato da un sole tiepido, quasi rilassante dopo tre giorni di afa torrida che mi ha tolto il sorriso ma faccio fatica a digerire Giorgio, con tutta la sua rabbia e la sua repressione. Mi piace, ha voglia di esplodere, come il suo locale, ma ha troppi sensi di colpa, troppi rimpianti. Sua madre è malata ed è per lei che è tornato. Ha difficoltà ad accettare la sua condizione di maturità, ha una fidanzata russa adesso che viene a trovarlo una volta al mese. Ha un paio di occhiali da sole a specchio, ha due ragazze che lo aiutano quando ha bisogno, ha la vista dei paracadutisti che atterrano nel terreno sotto al suo bar.

Giorgio non esiste finché non parla a ruota libera, resiste perché parla senza sosta e ci coinvolge nel suo finto divertimento alcolico, nelle sue avventure che ormai sono un ricordo lontano.

Ho letto le recensioni del locale, birra fresca, i paracadutisti che mangiano bene, ambiente e personale affabile. Il proprietario Marco è gentile e molto bravo in cucina, non si ferma a disturbare i clienti quando mangiano, i prezzi sono bassi e la posizione regala un bel paesaggio.

Ma lui non è Marco, lui è Giorgio, il nuovo gestore. Lui ancora non esiste.

Quindi voglio dire a Giorgio che è nel concetto di repressione che vivo la quotidianità o meglio sono le persone intorno a me che vivono la repressione in tutta la loro solitudine. Qui la gente vive in un isolamento che da involontario si fa volontario. Solo i più tormentati e caparbi resistono al richiamo della socialità e resistono come hanno fatto la prima volta, quando hanno visto cosa c’è oltre le montagne e non si sono fermati nel parco con il prato all’inglese e fanno in modo che quella curiosità di vivere che sembra una sensazione di troppo schizzi fuori dagli occhiali a specchio per colpire tutti gli interlocutori del mondo.



martedì 6 giugno 2023

Gioia e burnout

Gioia mia, oggi ti parlerò della gioia e della difficoltà di assaporarla a pieno.

La gioia è quello stato di ebbrezza che ci rende felici, che ci regala piacere, è un figlio che impara a camminare, una serata con gli amici a ridere, un rapporto sessuale, un’attività sportiva, un riconoscimento per il proprio lavoro, la realizzazione di un progetto a noi caro, una vincita, un amore, un viaggio.

La parola gioia ha a che fare con i bisogni individuali e con quelli sociali. Che cosa significa questo? Significa che la realizzazione dei bisogni individuali deve fare i conti con quella dei bisogni sociali ed è per questo che spesso la gioia è accompagnata dalla vergogna, per motivi che spaziano dalla religione, alla moda, al contesto culturale. La vergogna viene fuori quando siamo egoisti e causa uno spegnimento del piacere o un suo affievolimento.

Ecco perché dici di non essere mai pienamente felice, c’è una spiegazione. Non sei mica tu il problema. La gioia oggi non può essere esclusiva, totale, perché prevede sempre una regolazione emotiva determinata dagli ‘altri’. Solo l’equilibrio tra gioia e vergogna ci permette di essere socialmente adeguati.

Gli episodi di burnout sono una conseguenza dello scarto tra la realizzazione individuale, la soddisfazione cioè delle proprie aspettative, e una reale assenza delle condizioni per soddisfarle.

Ho capito solo adesso cosa ci è successo, quando ho letto dello scarto tra la vita professionale immaginata e quella reale, il disagio psicofisico connesso principalmente al lavoro, l’esaurimento emotivo, la depersonalizzazione e il nostro atteggiamento cinico, l’insoddisfazione personale e il senso costante di depressione. Ci svegliamo controvoglia e andiamo a lavorare per evitare di sentirci inadeguati. Il senso di impotenza che a volte ci pervade è talmente frustrante da far sì che somatizziamo tutto e, con un reflusso gastroesofageo, una tonsillite o la febbre a 40, il nostro corpo si assenta per un periodo come a proteggere la mente dal declino della frustrazione. Così a volte il corpo sopporta il peso di tutto questo per salvare la mente e la mente a volte sopporta il peso per salvare il corpo.

La gioia, in questo contesto di disagio di cui ci troviamo a far parte, è quasi mal vista. Pensa agli haters che godono nel distruggere il benessere, che nutrono invidia se la gioia di un utente Facebook è espressa consapevolmente o inconsapevolmente, se prevale la gioia individuale ovvero quella che rappresenta la vera realizzazione della propria volontà. I momenti di gioia e piacere hanno da sempre un rovescio della medaglia: il nutrimento è associato alla lussuria, il riposo alla pigrizia, l’accoppiamento alla lussuria.

Hai capito adesso perché ci sentiamo come dei fuochi d’artificio inesplosi? Abbiamo un potenziale enorme ma la città è isolante con i suoi rapporti sociali sempre più inesistenti a meno che tu non sia uno studente, sia chiaro. Solo in quel caso provi gioia perché ti rendi conto di avere ancora un cervello e delle potenzialità, è un momento di gioia regolamentato che stimola l’autostima e il piacere di conoscere, di sapere e scoprire nuove realtà.

L’ambiente lavorativo invece ci spreme come tubetti di colore senza un criterio, solo per il piacere di farlo, sfruttando il nostro corpo senza stimolare il cervello, macchiando tele bianche senza alcun progetto reale e condiviso.

Gioia mia, mi dici spesso che vorresti ricominciare da zero, in un paese in cui non ti conosce nessuno e in cui la gente sorride di più, vive con più leggerezza. Il motivo è questo, l’irrealizzazione del sé e della propria natura, l’impossibilità della gioia individuale, che sia anche solo una partita di pallone, senza che questa venga tassonomizzata da un ranking sociale che prima era molto più ristretto. Tutto il mondo adesso ci guarda e noi sappiamo che ci sta guardando e ci sentiamo per questo immobilizzati, fermi, in attesa di capire quale mossa sia la migliore.

Il futuro è ancora lontano e non sappiamo cosa vogliamo fare da grandi. Il senso di speranza ci avvolge e ci suggerisce che possiamo immaginare una vita migliore in cui è possibile che la soddisfazione individuale coincida con quella sociale. È lì che cerchiamo la gioia, nel frattempo possiamo solo scegliere i compagni per condividerne una idealizzata.

Le basi - 3. Gioia (google.com)